giovedì 26 luglio 2012

Manifesto dei principi dei doveri dei diritti della terra


La Libera Università Rurale dei Saperi  e dei Sapori  

PRINCIPI. L’agricoltura con le attività forestali è indispensabile alla sopravvivenza umana.
La campagna provvede a tutti i bisogni fondamentali di acqua, aria, biodiversità, cibo, energia, fibre (cotone, lana, lino ecc) e a tutti i materiali da costruzione. La terra è sacra, non l’abbiamo fatta noi. È la dimora naturale di ogni essere vivente. Sulla terra si fonda l’identità delle comunità umane se non è alienata, frammentata e non è basata su mere considerazioni utilitaristiche. Il suolo su cui camminiamo è mescolata la polvere dei nostri antenati; i nostri corpi, morendo, arricchiscono la terra dimostrando che essa non ci appartiene ma noi apparteniamo alla terra. La campagna è una comunità vivente di innumerevoli organismi e come un corpo deve essere nutrita, curata, fatta riposare. Si parla con lei attraverso il proprio corpo. La campagna è essenziale per rigenerare la società umana, perciò occorre arricchire le campagne, riscoprendone la sacralità.
Tutte le civiltà si basano sull’agricoltura, compresa quella industriale, ma nessuna è stata così distruttiva per la natura come la nostra che è perciò la più fragile di tutte.
Le tecnologie industriali applicate alla terra — prodotti chimici di sintesi come diserbanti, concimi chimici, anticrittogamici, macchine a energia fossile, sementi geneticamente manipolate, monocolture di merci per il mercato internazionale, che modificano il paesaggio per renderlo funzionale alle macchine — non sono agricoltura ma attività industriali, e non devono godere di privilegi per “pubblico interesse”.
Il furto anche di una sola mela è un reato punito penalmente, ma il saccheggio sistematico dell’eredità genetica e l’inquinamento dei cicli alimentari con conseguenze immense sulle popolazioni, non è considerato illegale dai governi, eppure viola i diritti fondamentali di tutti i popoli. Non c’è profitto derivante da questa distruzione che possa giustificarla.
La terra non è e non sarà mai una merce. È un bene comune. Il suo destino naturale è l’uso e il godimento comune.
Comune è l’aria che gli alberi e i venti rendono pura, comune è l’acqua che le radici delle piante, le rocce, le cascate rendono potabile e salutare come nessun impianto tecnologico può fare, comune è l’humus che si forma sotto gli alberi e nei campi ben coltivati perché arricchisce la catena alimentare, la quale è comune anch’essa insieme al polline dei fiori e a tutto ciò che serve a far vivere gli insetti, gli uccelli, gli animali e le piante selvatiche, delle quali comuni sono i semi spontanei così come quelli delle piante coltivate, selezionate dall’opera di tanti contadini e comunità indigene anonime che da sempre hanno lasciato in eredità gratuita a tutte le generazioni i risultati delle loro fatiche e scoperte. Comune infine è la terra per le popolazioni tribali. Ma anche nelle società contadine in cui è ben instaurata la proprietà privata, restano forme di usi civici e comuni sono le strade vicinali, la rete dei fossi, le sponde dei fiumi e i ruscelli, l’uso delle sorgenti liberamente aperto alla sete dei vicini e dei viandanti.
Coloro che conservano e trasmettono questa ricchezza insostituibile, obbedendo alle leggi naturali di alimentazione delle piante, migliorando la depurazione naturale e l’accumulo delle acque nelle falde, aumentando l’assorbimento di anidride carbonica e di acqua nelle biomasse sotto forma di humus, arricchendo i suoli, neutralizzando e trasformando le sostanze tossiche in utili e sane, proteggendo la terra dall’erosione, aumentando e migliorando la qualità degli alimenti per se stessi e le comunità locali, imprimendo sul paesaggio i segni della bellezza domestica, svolgono il lavoro fondante il pubblico interesse. Questo lavoro precede e supera quello degli stati e delle organizzazioni internazionali.
I contadini e i popoli indigeni non sono produttori di merci, sono guardiani della terra e della nostra sopravvivenza comune. Producendo beni strategici per la loro sussistenza, nutrono il paesaggio e lo umanizzano, cioè lo rendono domestico per la comunità di esseri, viventi o meno, a cui apparteniamo.
Le culture contadine e indigene sono orali, perché si basano su un’intelligenza e intuizione analogica e simbolica diretta, un linguaggio comune con la natura: scrivono nel paesaggio, con le piante, gli animali, gli strumenti e i beni che producono, non sulla carta. Nel loro operare lasciano spazio alle voci e al silenzio di tutti gli esseri viventi.
Le comunità contadine e tribali applicano l’etica della sussistenza, cioè soddisfano i loro bisogni essenziali direttamente dalla natura, rispettandone l’ordine, in economie locali di circuito, fondate su pratiche di coltivazione e uso della terra ereditate da saperi e abilità ancestrali che comportano l’impegno continuo a mantenere e ricostruire equilibri naturali, sociali e culturali. Il ciclo alimentare è per sua qualità intrinseca locale, finalizzato alla sussistenza.
DOVERI NATURALI. Il lavoro dei piccoli contadini e dei popoli tribali che obbediscono all’etica della sussistenza, in quanto la protezione e cura che dedicano ai loro luoghi ha effetti sul mondo intero, adempie ai seguenti doveri:
- conservare e arricchire il suolo, usando le biomasse per moltiplicare l’humus;
- favorire il manto vegetale perenne sia di leguminose che di siepi e alberi, rispettando la necessaria e salutare convivenza del maggior numero di specie;
- aumentare la capacità di assorbimento delle acque nel suolo, nelle falde e sorgenti e proteggerne la potabilità locale e gli altri usi comuni;
- curare i suoli tramite la manutenzione e adattamento di fossi, viottoli, muri a secco, ciglionature, strade vicinali, campi terrazzati ecc.
- migliorare le varietà e il ripopolamento delle specie vegetali e animali adattate ai luoghi aumentando così la biodiversità ed evitando le monocolture;
- curare la pulizia delle loro abitazioni, la salute dei loro alimenti e territori che abitano senza prodotti tossici, di sintesi e di plastica;
- produrre alimenti ugualmente sani per se stessi e per gli altri;
- rispettare la sovranità alimentare, cioè l’autosufficienza regionale: infatti solo se ogni popolo si nutre coi prodotti della sua terra è sicuro della sua indipendenza politica e di non rubare alimenti agli affamati dei paesi poveri;
- fare la manutenzione delle parti comunitarie della terra, dell’accessibilità dell’acqua da bere per la sete dei viandanti, delle strade vicinali, dei boschi e degli altri percorsi tradizionali;
- praticare e trasmettere le loro culture orali, che non escludono nessun essere vivente, e difendono il silenzio come diritto di uso civico;
- tendere allo stadio climax e alla massima simbiosi degli esseri umani con le altre forme viventi e i loro sostrati minerali.
DIRITTI NATURALI DEI CONTADINI E DEI POPOLI INDIGENI. Conseguentemente, chi opera sulla terra in violazione dei suddetti doveri non può vantare alcun diritto di precedenza e non può indennizzare le popolazioni con esborsi economici ma solo ripristinando l’ecosistema locale o bacino imbrifero nelle condizioni precedenti ai danni.
Chi opera sulla terra per fini di profitto esercita un’attività industriale e deve essere sottoposto a ogni regolamento, certificazione, controllo sanitario ecc. riservato a tali attività, rispettando tassativamente i limiti imposti dalle leggi nelle forme indicate dallo stato in cui opera. Gli Stati agiscono illegittimamente ogni volta che garantiscono alle imprese industriali diritti che sono in conflitto coi diritti tradizionali dei contadini.
A coloro che, anche soltanto su un fazzoletto di terra, assolvono i suddetti doveri appartengono i seguenti diritti originari, inalienabili e imprescrittibili;
1. il diritto di conservare la prosperità e la natura comunitaria della terra che rende immorale e illecito ogni e qualsiasi esproprio, anche per pubblica utilità, in quanto la pubblica utilità di chi esercita i doveri di cui sopra è superiore a ogni altra utilità;
2. il diritto all’analfabetismo, cioè il diritto di vivere e comunicare per mezzo di una cultura orale in tutto ciò che riguarda la campagna e le sue opere, il che comporta il divieto di obblighi scritturali o elettronici o certificatori di alcun genere per le attività contadine che saranno esclusivamente a carico degli uffici burocratici, per i popoli tribali ciò comporta anche il divieto di pretendere una documentazione scritta di proprietà della terra, bastando l’uso prolungato ab immemorabili;
3. il diritto alla gratuità dello scambio e della selezione dei semi che comporta il divieto di brevettare esseri viventi ancorché manipolati dalla scienza e dalla tecnica. Le varietà adattate ai luoghi fin da tempo immemorabile sono state il risultato attività svolte gratuitamente per il bene della comunità;
4. il diritto di accesso all’acqua e il divieto di qualsiasi attività che comprometta le falde, privatizzi le acque e ne riduca la disponibilità per i piccoli contadini, le popolazioni indigene o gli residenti/utenti;
5. il diritto al regime di esenzione dalle norme igieniche imposte dai governi: gli organismi sanitari di controllo hanno l’onere della prova nel caso sostengano che specifiche pratiche tradizionali adottate dall’agricoltura contadina provochino danni alla salute del suoi utenti.
6. il diritto al regime di esenzione dalle norme commerciali in quanto le attività di vendita diretta al pubblico e a dettaglianti da parte dei contadini e indigeni sono sempre state libere e non considerate attività commerciali.
 

sabato 21 luglio 2012

FATTORIE SOCIALI UN'OPPORTUNITA' PER LA SICILIA



Le fattorie sociali quale opportunità di sviluppo per la Sicilia, questa la sintesi che è emersa durante il seminario di studi che si è tenuto ieri venerdì 20 luglio presso la sala conferenza dell'Hotel President a cui hanno partecipato esperti e organizzazioni del terzo settore, del mondo dell'agricoltura e dell'associazionismo e che si sono confrontati sul tema delle fattorie sociali come strumento e metodologia di crescita socio culturale per soggetti svantaggiati.
Al convegno, organizzato dall'associazione Aurora Onlus e dalla cooperativa sociale Giorgio La Pira, sono intervenuti l'Assessore alla Famiglia Spampinato, l'assessore all'Agricoltura Aiello e l'Assessore al Territorio e Ambiente Aricò, che hanno rappresentato l'impegno istituzionale nei confronti del mondo sociale e della sinergia tra ambiente, agricoltura e cultura.
Fare rete, creare sinergie, dialogare, progettare e intercettare le giuste opportunità di finanziamenti comunitari sono tutti temi che verranno affrontati in occasione di un tavolo tecnico pubblico-privato convocato tempestivamente dall'Assessore Aiello e dall'Assessore Spampinato, per mercoledi prossimo, che prevede la firma di un documento congiunto di programmazione.

lunedì 9 luglio 2012

LAVORO: DANNAZIONE DIVINA O GRATIFICAZIONE TERRENA


  DI G.BIVONA

 
“SE SI ESLUDONO ISTANTI PRODIGIOSI E SINGOLARI,CHE IL DESTINO  CI  PUO’ DONARE,
L’AMARE IL PROPRIO LAVORO( CHE PURTROPPO è PRIVILEGIO DI  POCHI)
COSTITUISCELA MIGLIORE  APPROSSIMAZIONE  CONCRETA  ALLA  FELICITA’ SULLA TERRA:
MA QUESTA è UNA VERITA’ CHE MOLTI NON CONOSCONO!”
PRIMO LEVI( LA CHIAVE A STELLA)


“POVERO,ALLEGRO E INDIPENDENTE! –QUESTE TRE COSE INSIEME SONO POSSIBILI;
POVERO,ALLEGRO E  SCHIAVO,ANCHE QUESTE SONO POSSIBILI- E ALLA  SCHIAVITU’  DI  FABBRICA NON SAPREI DIRE AGLI OPERAI NIENTE DI MEGLIO, POSTO CHE ESSI NON SENTANO IN GENERE COME IGNOMINIA L’ESSERE ADOPERATI , COME ACCADE A QUISA DI INGRANAGG IDI UNA MACCHINA E PER COSI’  DIRE COME TAPPABUCHI DELL’UMANA INVENTIVA.
CHE ORRORE, CREDERE CHE CIO’ CHE NELLA LORO MISERIA è “ESSENZIALE” , VOGLIO DIRE LA LORO IMPERSONALE CONDIZIONE DI SERVITU’ ,Può ESSERE  ELIMINATO CON UN SALARIO PIU’ ALTO!
CHE ORRORE LASCIARSI PERSUADERE CHE, CON UN POTENZIAMENTO DI QUESTA IMPERSONALITA’ ALL’INTERNO DEL COMPLICATO MECCANISMO DI  UNA NUOVA SOCIETà , LA VERGOGNA  DELLA SCHIAVITù POSSA ESSERE TRASFORMATA IN VIRTU’!
CHE ORRORE AVERE UN PREZZO PER IL QUALE NON SI è Più UNA PERSONA,MA SI DIVENTA UN INGRANAGGIO.
SIETE VOI I COSPIRATORI , NELL’ATTUALE IMBECILLITA’  DELLE NAZIONI,CHE VOGLIONO SOPRATTUTTO  PRODURRE IL Più POSSIBILE E ARRICCHIRSI IL Più POSSIBILE?
LA VOSTRA CAUSA SAREBBE DI PRESENTARE  LORO IL CONTO DI RISARCIMENTO  PER LE GRANDI SOMME DI VALORE” INTERIORE “ CHE VENGONO BUTTATE VIA PER UN TALE SCOPO ESTERIORE !
DOVE  STA’ ALLORA IL VOSTRO VALORE INTERIORE, SE NON SAPETE PIU’ CHE COSA SIGNIFICA RESPIRARE LIBERAMENTE? SE NON AVETE ,NEANCHE UN POCO,IN VOSTRO POTERE VOI STESSI?

F. NIETZSCHE (AURORA)



Il campetto di tennis per la settimana di ferragosto rimase tutti i giorni libero. L’impresa venuta dal nord nei mesi successivi al terremoto  del Belice,  aveva in appalto i lavori per la costruzione delle le baracche e per l’occasione,  aveva portato in paese questa “novità” Don Saverio  ,quella domenica  poco prima di mezzogiorno,in sella alla sua mula, ritornava  dalla campagna .Le trazzere  ,che   legavano il paese alla campagna, non erano ancora state divelte,  cancellate , annullate ,perciò  l’anziano contadino vide  di passaggio questo strano “apparato”  con due ragazzi che come forsennati inseguivano una polla di colore giallo. I “poveretti” erano sudati fradici  e talmente stanchi  che si sostenevano  a fatica aggrappati alla rete di recinzione .Don Saverio si fermo a debita distanza per non spaventare la mula,  tuttavia sufficiente a riconoscere che uno dei due giocatori era …..suo figlio, studente universitario. All’ora di pranzo ,mentre la moglie apparecchiava la tavola , don Saverio ruppe il silenzio e quasi a bruciapelo rivolgendosi al figlio , gli chiese: “ Vuoi spiegarmi perché quando  ti chiedo di venire, qualche giorno, a lavorare in campagna , occasionalmente d’estate, tu  imprechi come un satanasso, ti da fastidio il sudore, sbuffi come una locomotiva e non ti sembra l’ora di  andare subito via;  invece quando vai a giocare e resti per ore a rincorrere una stupida pallina di gomma, sudando e ansimando  come un animale da soma , non smetti finché  non  ti senti sfinito? Insomma cosa hanno di diverso le due” attività” visto che ambedue,  richiedono lo stesso sforzo muscolare e l’impegno fisico?” Il giovane studente li per li rimase perplesso,la domanda a primo acchito sembrava banale ,Tuttavia nascondeva ,una ….insidia. Perciò decise di dare una risposta articolata  prendendola alla “larga”

”Devi, sapere che il lavoro è  una”invenzione” della borghesia , perché ce l’avevano a morte con l’aristocrazia e gli alti prelati della chiesa , ritenuti  degli oziosi,dei fannulloni, dei parassiti , insomma esseri nocivi che fino a quel tempo si sono indebitamente  appropriati dei beni di questo mondo. Presero a prestito una formula cara a san Paolo: “ Chi non lavora non mangia” I contadini e gli operai  ,su queste premesse ,solidarizzarono con la borghesia, puntando sul binomio lavoro-valore. La  contraddizione nasce nel  tempo , quando gli stessi borghesi non lavorarono neanche loro e si passa da un immaginario dell’uomo faber, dell’artigiano libero che vive del frutto della sua abilità  nel trsformare la natura ,verso una realtà sempre più alienata dominata dall’animal laborans tipica della condizione penosa degli operai e degli impiegati costretti ad un rapporto subordinato al capitale che asservisce e abbrutisce il lavoratore, senza avere  la pur minima speranza di diventare proprietario. Scrive Raul Vaneigem:” La borghesia, affrancata dal disprezzo con cui la schiacciava la pretesa nobiltà ,circonfuse il lavoro di una gloria ,che il proletariato-o quanto meno,i suoi rappresentanti- si affrettò a rivendicare, mentre ne era la più sventurata delle vittime. Un simile malinteso fu senz’altro meno estraneo di quanto non si creda alla lunga rassegnazione dei lavoratori”

 L’anziano contadino ascoltava  attento, tutto quello che diceva il figliolo, reduce dalla “barricate” del 68 ,parlava come un “libro aperto”.” Ma lu travagghiu”, intervenne don Saverio “è una cosa buona o cattiva?” Il giovanotto riprese sempre con calma.” Ora veniamo al punto. Via via che l’attività lavorativa si trasformava  in affare di carte e burocrazia e gli operai non erano che semplici ingranaggi  di una megamacchina infernale  il carattere ideologico ed immaginario  de lavoro  come intervento umano nella trasformazione della natura  avrebbe dovuto svanire. Ma non è stato cosi: tu stesso  quando usi il termine “travagghiu” non fai che  ridefinire il “ vero “ lavoro ( travail) come attività creatrice facendo un parallelo con il “travaglio”  del parto  separando il lavoro dal salario al quale era stato  sempre storicamente legato .Cercherò di essere più chiaro. La tua iniziale condizione di bracciante era vissuta in modo alienante quasi somigliava a quella degli operai della fabbrica. Funzionali ingranaggi della produzione  senza alcun rapporto con il” processo” e  men che mai con il “ prodotto”. Poi con n le lotte contadine e , metti pure con quell’aborto di Riforma Agraria, sei divenuto proprietario cosi hai realizzato  te stesso nel prodotto coltivato , e lo fai con tanta dedizione quasi ad identificartene.  Oggi  , il lavoro divenuto un diritto prima  ancora di essere un dovere  per il comune cittadino  è la garanzia di una “ciotola di riso” come si  suole dire in Cina Per strano che possa sembrarti in questa nostra “bacata “    realtà  il vero lavoro  si svolge nel tempo libero  . Non stupirti  , ma  il lavoro come realizzazione di se ,io lo vivo ….giocando.

       

venerdì 6 luglio 2012

I PRODOTTI De.Co. PER UN TERRITORIO PROTAGONISTA


La Denominazione Comunale (De.Co.) impropriamente dette anche Denominazione comunale d’origine, è la nuova frontiera sulla quale possono operare i sindaci per salvaguardare l'identità di un territorio legato ad una produzione specifica, con pochi e semplici parametri, il luogo di “nascita” e di “crescita” di un prodotto e che ha un forte e significativo valore identitario per una Comunità.
 Si tratta  di un sistema che vuole difendere il locale rispetto al fenomeno della globalizzazione, la quale tende ad omogeneizzare prodotti e sapori.
«Il bene identificato da una De.Co è un bene di un ben limitato territorio che nessuno potrà imitare; frutto della terra, frutto della tradizione, di una particolare abilità manuale non importa: è un bene definito, nel senso etimologico del termine, cioè con dei confini.
Ciò che è dentro “è”, ciò che è fuori dai confini della De.Co. “non è”»

La Denominazione Comunale non è un marchio di qualità, ma la carta d’identità di un prodotto, un’attestazione che lega in maniera anagrafica un prodotto/produzione al luogo storico di origine.


" Come io ammiro Picasso perché lo riconosco, così posso apprezzare un vino o qualsiasi altra cosa che viene dalla terra, se la riconosco. Trovo che questo sia un recupero di civiltà, di intelligenza e di libertà estremamente importante ". Così Luigi Veronelli, in una delle sue ultime interviste, spiegava lo spirito e l'importanza delle Denominazioni Comunali, ovvero la capacità d’identificare un prodotto territoriale come proprio di un territorio, di un luogo concedendogli una "carta d'identità" in grado di attestarne la provenienza e l'origine.
I mutamenti a livello globale impongono una seria riflessione sul ruolo di acceleratore di sviluppo che l’Ente locale è riuscito a conquistarsi, nel panorama competitivo attuale, grazie alla valorizzazione delle sue potenzialità. Investire sul territorio sembra essere il leit-motiv della gestione dinamica e consapevole  che, necessariamente, deve passare per la promozione del suo patrimonio.
In questo contesto, le Denominazioni Comunali (De.Co.)  assumono un ruolo strategico non solo nella salvaguardia delle produzioni locali (siano esse agroalimentari, enogastronomiche o artigianali), valorizzando il processo identitario di un luogo, ma anche nella promozione del territorio sul mercato globale.
Proprio attraverso una semplice delibera di giunta viene istituita la "Denominazione Comunale" che censisce integralmente un prodotto come "proprio" di un luogo, depositario di quell'insieme di valori e significati che l'intero percorso storico di una comunità ha sedimentato nel corso dei secoli.

Le Denominazioni Comunali costituiscono, nella loro straordinaria semplicità, una vera rivoluzione culturale nell’ambito della salvaguardia delle identità territoriali legate alla tradizione agroalimentare, enogastronomica e artigianale di un luogo. Esse si configurano come lo strumento principe per avviare congiuntamente sia un intervento di tutela delle specificità locali, sia un’azione di sviluppo sostenibile del territorio, in cui gli elementi endogeni costituiscono la vera leva di crescita sociale ed economica.
Nella loro prima accezione le De.Co. si trovano a svolgere una funzione non solo di difesa, ma di vera e propria conservazione del prodotto locale dalle contaminazioni e dai processi globali di standardizzazione culturale, che minano in misura sempre maggiore i cosiddetti antichi sapori e saperi tipici di un territorio.
Se non interveniamo oggi, molto probabilmente non avremo, fra 10-15 anni, il nostro patrimonio di saperi, sapori e tradizioni da trasmettere ai nostri figli e ai nostri “ospiti” che arrivano sul nostro territorio per conoscerlo, viverlo ed ascoltarlo.
Pertanto, la  De.Co. sulle produzioni locali consente di recuperare la memoria storica e le tradizioni di un luogo, come componenti determinanti del senso civico di appartenenza; di considerare la tradizione ed il lavoro alla base della qualità della vita; la conservazione eco-ambientale di un luogo come il mezzo necessario per la crescita dell’intero sistema socio-territoriale di riferimento.
Nella loro seconda valenza, invece, le Denominazioni Comunali diventano la leva su cui far ruotare l’intera economia locale. Basti pensare ai tanti “Piccoli Comuni” che trovano proprio nelle produzioni tipiche del territorio la vera “risorsa” su cui programmare il proprio sviluppo locale. Attraverso la loro valorizzazione formale e sostanziale s’inserisce un meccanismo di promozione all’esterno non soltanto del prodotto certificato come De.Co., ma dell’intero universo socio-culturale e storico del territorio d’origine.
La De.Co. è una realtà innovativa che restituisce agli abitanti le ricchezze del territorio e la loro tutela privilegia, chi il territorio lo vive: la Comunità.
La Comunità è chiamata a difendere e a riconoscere ciò che ne fa la storia e che nessuno potrà mai appiattire o imitare, realizzando in questo modo un livello di autocoscienza tale, riconosciuta dal Sindaco, che può dare adito allo sviluppo di un’economia, alla creazione di marchi o semplicemente a forme associative tra produttori.
 Per garantire la sostenibilità di una De.Co. occorrono tuttavia due principi, la storicità del prodotto da promuovere, perchè si eviti   improvvisazioni che possono nascere da meri interessi commerciali e la De.Co. come espressione di un patrimonio collettivo e non a vantaggio di una singola azienda.
Noi ci ispiriamo a un modello di De.Co per la Sicilia, che valorizza il Km zero, ma soprattutto, a burocrazia zero e chiaramente a costo zero, per le aziende, per le istituzioni e per i cittadini, dove gli elementi essenziali di relazionalità sono Territorio-Tradizioni-Tipicità-Tracciabilità-Trasparenzache rappresentano la vera componente innovativa.  
L’auspicio che poi rappresenta la vera sfida, riuscire a realizzare una rete dei comuni De.Co. per valorizzare quei prodotti di nicchia che inducono gli appassionati viaggiatori ad andare ad acquistare e degustare i prodotti nelle loro zone di produzione per promuovere l’offerta integrata “del” e “nel” territorio, piuttosto che mettere su strada le merci”.
 L'amministrazione comunale può creare facilitazioni ed opportunità, ma poi occorre che il territorio creda nelle sfide. Il riferimento è alla visione di  un territorio dove  si possa avviare  un piano di sviluppo indirizzato a proporre prodotti di rilevanza da offrire   dotandoli di una loro unicità.  
La difesa del territorio è un fatto concreto, che ha bisogno di tanta fantasia e tanti fatti concreti.Come si evince dalla cartina, non aggiornata, in altre parti del paese la de.co  è una realtà consolidata



Normativa di riferimento


*       La legge 8 giugno 1990 n. 142 (e successiva legge del 3 agosto 199 n. 265) che consente ai comuni la facoltà di disciplinare nell’ambito dei principi sul decentramento amministrativo, la materia della valorizzazione delle attività agroalimentari tradizionali che risultano presenti nelle realtà territoriali;
*       Sulla scorta delle sentenze della Corte di Giustizia europea del 1991, del 1992 e del 1998 (rispettivamente denominate “Torrone di Alicante”, “Exportur” e “Birra Warsteiner”), anche un prodotto De.c.o può essere inteso quale prodotto a marchio collettivo ad “indicazione di origine geografica semplice” da tutelare (senza implicazioni di rapporti tra le caratteristiche del prodotto e la sua origine geografica) e quale prodotto da censire opportunamente e salvaguardare dall’eventuale estinzione in quanto ad alta valenza di biodiversità.
*        Il d. lgs 18 agosto 2000 n. 267 (artt. 3 e 13) e la legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, che consentono ai Comuni di tutelare e garantire i diritti e gli interessi pubblici derivanti dalla presenza di espressioni popolari riguardanti le attività agroalimentari, in quanto rappresentative di un rilevante patrimonio culturale;
*        Il d. lgs. 228/01 (legge di orientamento in agricoltura) in merito alla tutela dei territori con produzioni agricole di particolare qualità e tipicità, per cui il Comune è tenuto a tutelare e a garantire il sostegno al patrimonio di tradizioni, cognizioni ed esperienze relative alle attività agroalimentari riferite a quei prodotti, loro confezioni, sagre e manifestazioni che, per la loro tipicità locale, sono motivo di particolare interesse pubblico e, come tali, meritevoli di valorizzazione;
*        La recente Comunicazione della Commissione UE denominata “Pacchetto qualità” (GUCE 2010/C 341 del 16 dicembre 2010) inerente alle nuove disposizioni relativamente ai sistemi di certificazione ed alle indicazioni facoltative e di etichettatura che conferiscono valore aggiunto alle proprietà dei prodotti agricoli ed alla loro commercializzazione;
*        Gli obiettivi della legge 18 gennaio 2011 su “Disposizioni in materia di etichettatura e di qualità dei prodotti alimentari” che prevede, tra l’altro, per i prodotti non trasformati l’indicazione del luogo d’origine ovvero il Paese di produzione e per i prodotti trasformati l’obbligo di indicare il luogo dove è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale e il luogo di coltivazione o allevamento della materia prima agricola prevalente utilizzata.
*       Infine, ma non per ultimo, riteniamo che la legge approvata dall’ARS il 9 novembre 2011 possa essere di valido supporto alla diffusione della de.co. alla valorizzazione della filiera corta e al chilometro zero anche in Sicilia.





lunedì 2 luglio 2012

La saggezza della grammatica e il senso della vita



g.bivona

 








L’uomo vive nel presente ,nella concretezza del quotidiano, nelle gioie e nelle difficoltà che delimitano e circondano i suoi confini . Il suo disincanto aiuta a crescere educandolo a una dura disciplina. Ma l’uomo non vive di solo presente  ,la grammatica infatti accanto ad esso prevede anche il passato e il futuro
L’uomo è anche ricordo , e anticipazione nello stesso tempo, memoria e attesa . Dal presente egli evade continuamente , trascinato da un sentimento che lo spinge a tornare indietro nel tempo . Pochi uomini  sanno vivere senza memoria , senza ferite ,senza nostalgia
Ma poco rassomiglia ad un uomo  colui che privo di sentimento per il futuro , sia essa speranza o paura , d’insicurezza o di quel piacere dell’attesa che rende il sabato più bello della domenica.
Il passato e il futuro permettono di aprire le finestre nella stanza del presente , rompendone la claustrofobia , la rendono abitabile e decente , mettono i fiori nei vasi, i  quadri colorati sulle pareti
Il presente allo stato puro non esiste: la sua aria sarebbe irrespirabile.
Gli uomini però conoscono altri modi  oltre l’indicativo . Il più complesso  tra essi è il congiuntivo , che non concentra l’attenzione su ciò che è evidente e si può indicare con certezza , ma lavora d’immaginazione , costruisce congetture e si muove ai bordi della realtà.
Come dice il suo nome ,esso congiunge , rende la vita più complessa e fa sbarcare nel presente l’ansia di ciò che potrebbe essere  di ciò che dipende da “se”, una parola piccola ma potente  che fa entrare nel regno sconfinato e mobile delle possibilità .
L’immaginazione era entrata nella vita tramite il passato e il futuro , ma qui la fa da padrona!
Non a caso a due passi dal congiuntivo  abita il condizionale  popolata di “vorrei”e dai “potrei”  un vasto territorio  popolato dai desideri che premono ai confini della realtà , con la speranza di riuscire a forzare i cancelli e penetrare al suo interno.
Il participio e i gerundio sono invece più sobri , ci parlano della compresenza delle azioni  facendoci vedere che il nostro presente concreto è complesso e stratificato , come una equazione con tanti parentesi .Il participio passato ,per esempio piegandosi  con umiltà e spirito di servizio , inventando sfumature e articolazioni ,permette a tutte le azioni di coabitare senza problemi. Il gerundio  invece con quella sua forma insolita, inizia a liberarci dalla schiavitù dei pronomi , da quella ossessione che vuole assegnare un’azione sempre a qualcuno ed ha paura che i verbi vadano in giro da soli liberi e senza padroni.
Da questo punto di vista il più pericoloso  è sicuramente l’infinito , perché si sottrae alla padronanza alla tirannia dei soggetti . Esso è il comunismo del verbo, la sua desinenza è libera da ogni assegnazione personale.L’infinito è la metafisica del verbo ,il momento in cui esso perde i confini e riassume in se tutte le voci . per questo nei vocabolari troviamo sempre l’infinito : è l’unica capace di rappresentare  tutte le altre , al di la delle piccole invidie e gelosie dei pronomi
Ogni volta che incontriamo un  verbo all’infinito è come se guardassimo il cielo librandoci sopra le meschinità terrene.
Infine c’è l’imperativo , il modo dei comandamenti . Duro, privo di duttilità  e di fantasia , sempre preoccupato che il presenta proceda senza principi , rispettando solo la fisica feroce dei corpi . L’imperativo sa ciò che è bene e ciò che è male  e vuole che i suoi punti esclamativi mettano ordine nel mondo . Esso non descrive, ma giudica, è insopportabile , ma …necessario . Non ama le spiegazioni  e spesso molti non l’ascoltano , ma torna di nuovo a predicare  cercando di far penetrare nell’essere  il dover essere , figura sconosciuta nella geometria piana dell’indicativo 
L’uomo può vivere bene nel presente  solo se esso è affollato e trafficato da tutti i tempi e modi del verbo  se egli , accanto di ciò che può toccare , ha anche un po’ di nostalgia , desiderio di futuro , ricchezza di immaginazione ,coscienza della complessità ,senso del dovere e gusto dell’interrogazione metafisica
(liberamente tratto da “Modernizzare stanca” di Franco Cassano)